NOTIZIE AS ROMA (IL ROMANISTA, T. CAGNUCCI) – Giorgio Rossi che a 83 anni con il rastrello in mano si mette a pulire Campo Testaccio è una delle immagini che se qualcuno un giorno, chissà perché, ti dovesse chiedere che cos’è la Roma tu gli rispondi: “tie’ guarda”. Tie’ guarda e sta’ zitto.Diventerebbe complicato spiegare a parole (è difficile adesso) che quel rastrello in mano a Giorgio Rossi glielo hanno messo i ragazzi della Curva Sud che insieme al simbolo più pulito della nostra storia sono andati a pulire quel campo di gloria; per qualcuno poi diventerebbe impossibile capire se quei ragazzi della Curva Sud li chiami ultrà. Andrebbero ai matti: non capiranno mai. E in fondo hanno ragione loro. Loro, gli altri, quelli che dormono tranquilli, quelli che si coprono, quelli che non scendono in piazza, quelli che hanno i giudizi già pronti che però non ci stanno mai a chiamarli pregiudizi, quelli che leggono solo e sempre certi giornali, quelli che non hanno paura perché hanno smesso di rischiare, quelli che non sanno che cos’è un sentimento, che non sanno minimamente che significa – letteralmente – provare: perché è da folli, da scemi fare quello che hanno fatto i tifosi della Roma ieri mattina. Sono andati alle 9 (ma pure prima) a pulire Campo Testaccio, a pulire la storia armati di rastrelli, scopettoni, tute, guanti, sacchi, e pale. Hanno pulito un Campo pieno di rifiuti, rovi, erbacce, merda, siringhe, documenti rubati, borse, scarpe, ciavatte, anfore, e un pallone bucato perché quel Campo rappresenta la loro storia. La nostra storia.
Sono folli perché lo hanno fatto per tutti. Sono folli e non ha senso spiegare a chi non vuol capire e quelli che non vogliono capire sono la maggioranza, sono quasi tutti, se è vero – come purtroppo è vero – che Campo Testaccio, un pezzo della storia della Roma, un pezzo della storia di questa città, un pezzo di cuore vivo della nostra vita romana e quindi romanista, è ridotto a un campaccio, è fatiscente, chiuso, dimenticato, archiviato quasi a discarica, lì dove c’è stata epopea e amore, lì dove c’è stata battaglia e gloria, lì dove la Roma è diventata la Roma. Ci volevano fare i parcheggi, manco quelli (fortunatamente) sono riusciti a fare, a Campo Testaccio non ci hanno fatto niente, lo hanno lasciato morire, lo hanno voluto lasciare morire. Fino a ieri. A volte un’azione simbolica ha la capacità di poter resuscitare i simboli stessi. Ieri mattina la Curva Sud della Roma è andata a Testaccio. Fosse ancora vivo Heidegger ci avrebbe fatto un trattatello di filosofia – una qualche appendice di “Essere e tempo” – perché la Curva Sud dell’Olimpico a Testaccio, la Curva Sud di oggi in uno stadio di ieri, in uno stadio che nemmeno c’è più, è un cortocircuito alla logica e alla filosofia, è il superamento di una stronzatella metafisica come la macchina del tempo: è qualcosa di più, qualcosa di molto più grande. Non un ritorno al futuro, ma un passato che si fa presente.
Il nome dei ragazzi che ieri sono andati con gli occhi belli che hanno i tifosi della Roma (che sono quelli che si commuovono quando guardano la fotografia di Giorgio Rossi col rastrello in mano) andrebbero scritti uno per uno dopo questi: Ceresa, Brunella, Gadaldi, Serantoni, Donati, Fusco, Krieziu, Pantò, Provvidente, Coscia, Alghisi: è l’ultima formazione della Roma che ha giocato qui, contro il Novara, era il 2 giugno 1940 (la prima contro il Brescia il 3 novembre del 1929 era Ballante, Corbyons, De Micheli, Ferraris IV, Degni, Carpi, Benatti, Dalle Vedove, Volk, Bernardini, Chini, perché è giusto ricordare, perché è un dovere ricordare, perché è bello ricordare). Manipoli di poeti, gente fatta per il carpe diem, gente che non si rassegna alla noia della quotidianità e che ieri è andata ad aprire quel lucchetto dei ricordi: l’effetto è un po’ come la lampada magica di Aladino che risveglia il genio dopo millenni, il sapore è quello di aver ritrovato qualcosa messo in soffitta e che è esattamente quello di cui avevi bisogno: ricordi, perché i ricordi non sono vita passata ma vita che ancora vive, perché se c’è cuore e anima e sentimento in questa squadra è perché c’è stata una volta, e perché tra le tante favole, fra i tanti c’era una volta quello di Campo Testaccio è il più vero.
C’ha tanta gloria… Testaccio per i romanisti è stata la Roma. Testaccio è stato un mito mentre viveva ogni giorno. Testaccio era un effetto di fondo ed era un frastuono dentro: chi c’era ricorda, chi non c’era ma ha studiato tramanda: “provate a immaginare cosa provavano i giocatori della Roma quando uscivano dagli spogliatoi, si preparavano ad andare alla luce, uscire dalla botola sotto terra, uscire alla folla che nel frattempo batteva i piedi per terra, sul legno: tremava tutto sotto quando loro, gli eroi, uscivano sopra”. E poi era luce. Poi era mattina. Poi era Roma. Poi erano vittorie lì proprio in un quartiere fatto quasi esclusivamente per i vinti. Testaccio è stato il campo del riscatto. E’ stato il terreno dell’orgoglio. Testaccio è la storia di Balilla Lombardi figlio di una lavandaia di Testaccio che arrivò a giocare con la Roma; Testaccio è stato Borsetti – di Vercelli – che restò a vivere a Testaccio e la moglie che esulta strappando un mantello a un carabiniere per un gol nel derby. Testaccio è stato à Ferraris IV che si prende un colpo di moschetto in faccia in una rissa coi laziali, Testaccio era quel sottopassaggio dove si regolavano i conti, dove si faceva sapere – a chi non lo aveva capito bene – cos’era la Roma (e magari c’era già appesa una foto di Giorgio Rossi col rastrello in mano). Testaccio è stato ed è Alberto Sordi che s’arrampica sul Monte dei Cocci per vedere la partita che con la copertura – fatta apposta per ostacolare i portoghesi – si può vedere solo un tempo e allora si va di corsa al cinema Vittoria ad aspettare il risultato, se non hai avuto la fortuna di essere uno di quelli che stavano lì a battere i piedi per terra sul legno colorato di giallorosso, che strillavano Forza Roma a tutto spiano con o senza la bandieretta in mano. Perché c’hai er core romano. Testaccio è una canzone. È la canzone dei nostri giorni ancora. Testaccio è stata la follia e la grandezza di Masetti che per 5’ decideva di non parare con le mani, ma con le spalle, i piedi e il petto giusto per fare il coatto e dare spettacolo ai ragazzini del settore popolare che pagavano 5 lire e si mettevano dietro la sua rete a vedere la partita: un giorno (era un Roma-Juve) tra quei ragazzini c’era Ennio Morricone. Testaccio è la Sora Angelica, la moglie del custode Zi Checco (Testaccio è stato Zi Checco) che lavava la schiena ai giocatori negli spogliatoi perché considerava i giocatori la sua famiglia: mai nessuna Roma è stata Roma, cioè una famiglia come la Roma di Testaccio, Testaccio è stato molto altro. Testaccio è quello che ti viene da dire quando pensi a certe atmosfere di Roma, del cuore. Quelle col cuore in gola quando i giocatori attraversavano il camminatoio che portava all’antro magico di Angiolino Cerretti, il massaggiatore, perché in quell’”ufficio” ci potevano entrare solo i grandi e se eri arrivato là eri arrivato e basta. Testaccio è stato un 5-0 alla lazio fatto dal Campo, perché sul 5-0 una zolla deviò fuori la palla che aveva superato Masetti che era primo portiere perché il secondo era il Campo stesso. Quel campo è stato un orto coltivato a grana ai tempi della guerra, e gli spogliatoi erano rifugi ai bombardamenti in quella via che scorreva vicino – e che costeggia il cimitero “degli inglesi” – che era la via “delimortacciloro”. Testaccio è stata l’aristocrazia popolare di Fulvio Bernardini. Testaccio è stato Fulvio Bernardini ma non tanto quando ci giocava, ma quando ci ritornava. Bernardini era il Dottore, il professore, il giornalista, quello che andava sempre avanti, e la sua vita è stata così, come dire “progressista”, ma quando andava in quelle cene coi “sopravvissuti” di quella Roma (la Roma di Testaccio) trovava sempre un momento per andare da solo davanti a quella spianata nella sua ricerca del tempo perduto.
Ecco i tifosi della Roma, la Curva Sud che ieri è andata a Campo Testaccio, è una risposta anche a Proust: è un po’ averlo ritrovato quel tempo perduto. Ieri mattina è stato l’oggi della nostra storia. Parlare di ieri mattina è parlare di ogni ieri della nostra storia. La Curva Sud, senza politici, senza nessun cappello, senza nessun finanziamento, senza nessun interesse tranne quello della memoria, dell’appartenenza e del cuore ieri ha voluto far rivivere tutto questo. Dicono che la gente non va più allo stadio, forse sarebbe meglio dire che non ce la fanno andare, che vietano di andarci, che vietano il colore, il rumore, l’amore; dicono che i bambini non vanno più allo stadio, dicono sempre tante cazzate quando si parla di queste cose: perché ieri mattina almeno duecento persone – e c’erano dei bambini e c’era un signore di 83 anni con il rastrello in mano – sono andati in un campo dove non solo non c’era partita, ma non c’era nemmeno il campo. Non sapete quanta voglia di pallone e quanta civiltà ci sta dentro quest’azione. Non è stato un atto di forza ma d’amore, e se qualcuno ha qualcosa da ridire capisse che niente è più forte dell’amore. È come l’essere andati in una zona dove non solo si deve riniziare tutto ma dove si può farlo grazie a questo gesto di questi ragazzi che ancora ci credono. C’era anche una bandiera di Agostino Di Bartolomei appesa alla rete. Sembrava dire: “Testaccio, Agostino ti guarda” (parafrasando la Sud che nell’81 nella sfida alla Juve espose “Roma Testaccio ti guarda”). Quella bandiera, quegli occhi disegnati sono come uno specchio dove dovrebbero trovare tanta vergogna tutti quelli che hanno ridotto questo pezzo di vita e di storia così, ma anche uno specchio per i tifosi della Roma che continuano ad avere sempre gli occhi troppo belli per poterli abbassare.